Manifesto
Portiamo laboratori di fotografia analogica e camera oscura in zone di frontiera
Le nostre motivazioni sono forti, i nostri obiettivi sono chiari, la nostra determinazione è potente.
Abbiamo capito che il mondo in cui viviamo, fondato sull’ingiustizia sociale e lo sfruttamento, non ci piace.
E abbiamo deciso di lottare per cercare di cambiarlo, con i mezzi che conosciamo meglio: la cultura, l’arte, la solidarietà. Abbiamo deciso di agire tra gli ultimi, gli sfruttati, i dimenticati, gli oppressi. Perché è lì che si nasconde la speranza, l’energia, la scintilla che sola può dar vita al grande fuoco da cui può nascere il mondo che immaginiamo.
Oltre i confini, vicini alle persone
RedLab – Darkroom over the borders ha un obiettivo preciso: portare laboratori di fotografia analogica e camera oscura in zone di frontiera, per incentivare e catalizzare processi di autonarrazione e autocoscienza in persone che vivono situazioni di disagio, migliorandone il benessere sociale, mentale ed emotivo.
In situazioni difficili, in cui la maggior parte dei supporti è solitamente focalizzata sul garantire gli elementi necessari per sopravvivere, noi facciamo una scelta diversa, e ci concentriamo su ciò che è fondamentale per vivere.
Costruiamo un safe place in cui ognuno può raccontare se stesso e i propri sogni, scoprire i propri punti di forza, di debolezza e lavorare sul presente non come semplice dimensione della quotidianità, ma come punto di partenza per costruire il futuro.
Frontiere
La frontiera per noi è la condizione di possibilità nonché il luogo – fisico e non – di relazione, incontro e definizione di due o più identità.
Esistono molti tipi di frontiera: geografica (confini politici e naturali), mentale, sociale, fisica (carceri, campi rifugiati, ecc), istituzionale, culturale, linguistica, ecc.
RedLab è un’associazione che agisce nel presente per costruire il futuro.
Abbiamo fatto una scelta di campo così radicale perché crediamo fortemente che proprio nelle zone di frontiera, teatri di lotte, conflitti, sofferenze, speranze, risiedano le energie emotive e motivazionali, il terreno fertile necessario perché crescano i semi del cambiamento.
Senza conflitto non esiste cambiamento, senza cambiamento non può esistere futuro.
metodo Pinhole
Lo strumento che abbiamo scelto per dare forma concreta alla nostra azione è la fotografia, più precisamente la fotografia analogica stenopeica. Pur mantenendo lo stretto legame con la Realtà, caratteristico del mezzo espressivo fotografico, che deve per forza partire dalla presenza del reale di fronte alla fotocamera, il foro stenopeico è infatti in grado di costruire delle rappresentazioni capaci di raggiungere la dimensione dell’immaginazione.
L’indefinitezza propria delle immagini ottenute tramite la tecnica del foro stenopeico amplifica la possibilità di raffigurare il mondo dell’immaginario, attraverso un processo simbolico e metaforico che fa interagire il mondo esterno con il mondo interiore di chi scatta la fotografia.
Questa tecnica assume un valore particolare, se applicata a una situazione come quella che si vive in una zona di frontiera, in cui è impossibile estraniarsi dalla realtà quotidiana, ma è fondamentale risemantizzarla contaminandola con la dimensione dei sogni, delle aspettative, delle speranze. La magia e lo stupore dell’immagine latente che si materializza sulla carta fotosensibile è un potente strumento di rivelazione, e si lega a quella dimensione arcaica che mette in relazione la realtà alla fantasia, la lettera al simbolo, il presente al futuro.
Voci di frontiera
Chiunque utilizzi la fotografia in contesti di sofferenza e disagio deve porsi, prima o poi, delle questioni etiche: è giusto fotografare una persona che, quasi sicuramente, non si trova nella situazione che sceglierebbe per essere rappresentata? È giusto oggettificare un essere umano all’interno di un’immagine fotografica, privandolo di quel ruolo di soggetto già messo così in crisi dalle difficoltà che è costretto ad affrontare? È giusto, in definitiva, renderlo il personaggio di uno spettacolo in cui non vorrebbe mai trovarsi? Sono domande che anche noi ci siamo posti, e a cui abbiamo dato una risposta: no, non è giusto.
Chi partecipa non viene fotografato, ma fotografa. È per questo che i laboratori di RedLab sono partecipativi: diamo alle persone gli strumenti necessari per poter utilizzare il linguaggio fotografico come mezzo d’espressione della propria soggettività.
Chi partecipa non viene fotografato, ma fotografa. È per questo che i laboratori di RedLab sono partecipativi: diamo alle persone gli strumenti necessari per poter utilizzare il linguaggio fotografico come mezzo d’espressione della propria soggettività.